Il Minotauro è uno scandalo. Dinamite sul confine tra dicibile e indicibile, legittimo e illegittimo: scisma incarnato, sfida alla ragione, corpo senza redenzione. Così lo scolpisce Dürrenmatt nella sua ipnotica ballata del 1985, testo ancor oggi senza tempo: “(…) una creatura come lui non sarebbe dovuta esistere, lo vieta il confine tracciato fra animali e uomini e fra uomini e dei affinché al mondo regni ordine”. Un essere costretto a non essere dunque. Amare senza essere riamato. Che ripone nell’umano una fiducia cieca, infantile e ripagata con l’annullamento, la gogna della normazione: Teseo, portatore di una ragione affilata e rilucente come la sua spada, lo uccide riportando ordine e gerarchia. Teseo l’eroe, uomo supremo eppure dannato, dallo stesso mito che lo genera, a macchiarsi di due crimini: l’abbandono di Arianna, che col suo filo gli aveva regalato la vittoria sul mostro, e l’uccisione del padre.

Chi dei due è dunque, il mostro?

La domanda resta aperta da millenni: una ferita che gocciola sangue, tirata per i lembi, nel tempo, da Ovidio, Dante, fino a Dürrenmatt e Yourcenar.

Dalle note di regia di Giuliano Scarpinato